L’internazionalizzazione delle università: lo sguardo dell’esperto Enrico Sartor

Enrico Sartor, esperto di Higher Education Marketing ci parla di internazionalizzazione: la volontà delle università di guardare oltre-confine.

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Su Education Marketing Italia abbiamo sempre cercato di offrire un ampio sguardo sul mondo dell’istruzione, offrendo un approccio “atipico” – quello del marketing – che riteniamo essere sempre più centrale nel progressivo miglioramento delle strutture, delle organizzazioni e delle strategie comunicative e promozionali delle realtà formative, da un asilo nido ad un liceo, da un centro di formazione professionale ad un’università, ad un master MBA.

Un approccio, questo, che in qualche modo le università già stanno largamente adottando, dotandosi in modo sempre più strutturato di personale, uffici e risorse da dedicare al marketing.

Quando parliamo di chi si occupa di marketing in università, è bene fare una netta distinzione: da un lato c’è il “dipartimento di marketing”, ovvero quindi l’insieme di corsi, il “luogo di didattica” del marketing (che fa capo solitamente ad una Facoltà di Economia!); altro tema è invece ciò che avviene all’interno degli “uffici marketing” – strutture preposte quindi all’implementazione di strategie di marketing per l’università stessa.

In queste seconde strutture, negli ultimi anni si sta facendo sempre più forte la necessità di dedicare parte delle risorse (e volgere parte della propria visione) all’internazionalizzazione: un processo che può essere modulato in tantissime varianti ma che ha come nucleo fondamentale la volontà di guardare oltre-confine.

 

Abbiamo oggi qui con noi Enrico Sartor, esperto di Higher Education Marketing e di recruitment internazionale, oltre che Global Merchandising Director dell’Università Ca’​ Foscari di Venezia.

 

Education Marketing Italia (EMI): Ciao Enrico, grazie per aver accettato di farci “da guida” nel trattare il complesso argomento dell’internazionalizzazione delle università. Partiamo dalle basi: che cos’è l’internazionalizzazione e in che modalità un’università può scegliere di seguire questo processo?

Enrico Sartor (ES): L’università è per sua stessa natura internazionale: quella occidentale nasce transnazionale, con gli studenti che si spostano da tutta Europa per seguire i docenti più qualificati, e questi ultimi che fanno gruppo nelle città universitarie, ad esempio Bologna e Parigi, che mettevano loro a disposizione quello che oggi definiremmo l’ambiente di lavoro più consono al loro lavoro: insegnare.

L’internazionalizzazione delle università così come invece la intendiamo noi è un tema più complesso, legato al successo, a partire dal secondo dopoguerra, di schemi di mobilità internazionale statunitensi prima (si pensi alle borse Fulbright) ed europei poi (il programma Erasmus su tutti). Successivamente tali schemi sono stati ripresi anche da altri sistemi formativi. Si è quindi nel tempo creata una accentuata mobilità internazionale di studenti e di docenti.

L’accelerazione del processo di internazionalizzazione è però figlia degli anni ’90 del secolo scorso: può essere vista come un “di cui” del processo di globalizzazione tout court, a sua volta principalmente uno sviluppo ideato quasi a tavolino dagli Stati Uniti. Con l’esplosione del commercio e della finanza internazionali, e l’industrializzazione più o meno volontaria di interi continenti, come nel caso della Cina, è esponenzialmente aumentata la richiesta di laureati qualificati, meglio se poliglotti.

Il problema è che un’università non si costruisce in un giorno: il risultato è stata un aumento di domanda di formazione terziaria di alto livello presso i soli Paesi che fossero in grado di erogarla. In primo luogo quelli anglosassoni, favoriti, e non poco, dal fatto che l’inglese fosse la lingua franca della globalizzazione stessa. A seguire, i Paesi europei occidentali, tra cui l’Italia, che si sono accodati costruendo percorsi in lingua inglese anche, ma non solo, per intercettare quel surplus di domanda. Alcuni Stati, tra cui l’Italia, hanno infine costruito meccanismi di premialità per finanziare gli atenei che immatricolassero più stranieri, e così il cerchio si è chiuso.

Quindi, a livello macro, si è passati dall’organizzare scambi di studenti (mobilità per crediti – credit seeking) a organizzare sistemi formativi attrattivi per l’intero percorso di laurea (mobilità per diplomi – degree seeking). Poi, se vogliamo, possiamo menzionare altre azioni di internazionalizzazione: dai cosiddetti doppi titoli, allo scambio di docenti, alle summer school: ma i due fondamentali sono quelli di cui abbiamo accennato.

 

EMI: Parlando quindi della possibilità di reclutare studenti internazionali, quali leve del marketing pensi che sia più vantaggioso utilizzare?

ES: Premetto subito che il trend si sta spostando dal marketing propriamente detto al branding, ed è sempre più difficile fare marketing in assenza di un brand consolidato, anche a livello di università. Anche in Italia ci sono atenei e business school che si sono dotate di un brand manager, e credo il futuro sia questo.

Se per leve intendiamo gli strumenti, essi sono sostanzialmente tre: le fiere, gli agenti e gli strumenti on line. Le fiere a loro volta sono sempre più spesso eventi virtuali. Perché quello che prima in una fiera era il fattore premiante, il contatto umano tra studente e rappresentante della scuola, in tempi di COVID-19 è un fattore sfavorevole. Sempre più, gli agenti si stanno affermando anche in Italia: oggi la keyword è representatives, il che pone nella corretta ottica il lavoro di chi mi rappresenta e recluta in mia vece a livello internazionale.

Gli strumenti online sono quelli che vedono la crescita più tumultuosa: perché parliamo sia di canali (i social, il sito, i portali, etc.) che di marketing knowledge (la SEO, il SEM, GA, solo per citarne alcuni). Il problema è che i canali crescono sempre più, si pensi ad esempio ai nuovi social, da TikTok a Clubhouse, e di conseguenza i reclutatori dovrebbero aggiornare le competenze: questo è il cul-de-sac che le scuole, – le cui risorse sono sempre più scarse – devono affrontare oggi. In altre parole, se oggi investo ad esempio in Facebook, rischio di non trovarci quello che cerco, ossia gli studenti, ma “solo” i loro genitori: quindi devo comunicare a questi ultimi e non ai primi. Ne consegue, per rimanere all’esempio di Facebook, che questo social è un canale obsoleto per fare marketing in ottica reclutamento: però oggi le scuole lo sanno più o meno utilizzare e quindi si continua a investirci risorse.

Sono però convinto che la questione centrale non sia tanto come fare il marketing, né come finanziarlo, né come alimentare job description che sono per certi versi nuove per il sistema dell’istruzione italiana. Il punto nodale è come gestire le richieste di informazioni e le conseguenti application: è in questo campo dove, a mio avviso, c’è ancora tanta strada da fare.

Perché è inutile, anzi controproducente, fare marketing internazionale se poi non siamo in grado di gestire in tempo reale una richiesta di informazioni o un’application. Conosco casi in cui passano mesi prima che un interessato abbia un riscontro: in quei mesi, spesso i nostri competitor fidelizzano i candidati ai quali noi non diamo risposte. A livello internazionale questo fenomeno è chiamato speedy recruitment e credo renda bene il concetto.

 

EMI: Per competere efficacemente a livello internazionale, quindi, possiamo dire che bisogna ragionare a più livelli. Non solo una struttura interna in grado di mettere in campo azioni e strategie di marketing; c’è bisogno anche di una rete di agenti che si muova all’estero e di un buon network domestico tra le Università, che favorisca la creazione di un Sistema-Paese adeguato. A che punto pensi che siamo in Italia? E che cosa c’è ancora da poter migliorare?

ES: Dare una risposta a questa domanda, che è innanzitutto politica, non è banale. Quello che posso dire è che tra università, ma anche tra scuole e tra IB, c’è collaborazione, non competizione. Perché tutti hanno capito che le risorse (gli studenti internazionali) sono una commodity numericamente molto consistente, quindi non è che uno guadagna a fronte di un altro che perde. Anzi. I Paesi che vincono su questo fronte, tra cui l’Italia, che è dodicesima al mondo in questa particolare classifica, sono quelli che sono in grado di intercettare i flussi di studenti e di educatori interessati a trovare un’offerta formativa di qualità in un contesto sicuro, sano e piacevole. Di offrire insomma un pacchetto dove la formazione è la componente più rilevante, ma non l’unico ingrediente.

Per fare un esempio, in Francia il presidente Macron ha pronunciato un endorsement piuttosto marcato nei confronti di Campus France, che è l’agenzia deputata a rappresentare internazionalmente il sistema scolastico francese, e si è spinto a dichiarare come la crescita degli studenti internazionali in Francia rappresenti una componente essenziale nel soft power della Francia stessa. Ecco, una mossa analoga forse aiuterebbe anche da noi.

 

EMI: Negli ultimi anni si sta iniziando a parlare moltissimo di ranking universitari. Cosa bisogna fare per “scalare le classifiche”? È davvero possibile competere con i grandi college americani e britannici?

ES: Innanzitutto, bene che se ne parli e che se ne parli con cognizione di causa, come recentemente sta facendo la Conferenza dei Rettori italiana con un lavoro approfondito, portato avanti da un gruppo che ci ha lavorato per tre anni.

I ranking sono organismi complessi, fatti di addetti, di processi, di interessi, di investimenti, e di tanto, tanto marketing. Il punto di partenza è conoscere come funzionano. In secondo luogo è necessario investirci. Ci sono atenei nel mondo che mantengono uffici ranking fatti di decine di persone: statistici, analisi, lobbisti, comunicatori, esperti di PR. Nel caso italiano, le università che si sono attrezzate, e che spesso guarda caso scalano le classifiche, lo sono in primo luogo perché quello dei ranking è un tema che è entrato nelle agende politiche delle loro governance, fatto tutt’altro che scontato. Poi, si è investito.

Sulla domanda se è possibile competere la risposta è affermativa. Molti stati, si pensi alla Russia, alla Cina, alla Germania, al Giappone, hanno investito in schemi di eccellenza, ossia imputato una quota extra di finanziamento su un gruppo ristretto di università. Anche con la finalità di scalare i ranking.

Che questo sia politicamente viabile in Italia, è altro discorso. Poi, certo, ci sono dati di fatto incontrovertibili: tutti citano il caso di Harvard, il cui budget nel 2019 era pari a 5.5 miliardi di dollari, non molto inferiore al finanziamento pubblico all’intero comparto pubblico universitario italiano. Ecco, di fronte a queste cifre non c’è marketing che tenga. E si badi bene che le Harvard nel mondo, parlando in termini di budget, sono decine.

 

EMI: Tornando all’idea alla base dell’internazionalizzazione, pensi che questo approccio possa essere utile anche a scuole di ordine inferiore? Penso a scuole internazionali oppure a scuole che offrono percorsi IB (International Baccalaureate, equipollente all’esame di maturità, ndr.).

ES: Conosco più di un IB con sede in Italia che fa recruitment internazionale, e lo fa con successo. Organizzano fiere, mantengono una rete di agenti, reclutano online. In questo modo, tra le altre cose ottemperano al claim contenuto nel titolo del programma: international baccalaureate, dove gli studenti italiani si mescolano agli studenti di altre culture.

La risposta è quindi affermativa, almeno per quattro motivi. Primo, gli IB sono in crescita nel mondo, e in crescita è il numero di famiglie che può permettersi un IB. Secondo, l’Italia è vista come un Paese molto sicuro, dove far studiare i figli, anche di minore età. Terzo, gli IB sono scuole private, che quindi possono organizzare il loro recruitment internazionale in modo libero, e in sostanza andare dove c’è mercato con gli strumenti e gli skill che il mercato richiede. Infine, il processo di recruitment di un IB è un processo “rolling”, ossia sempre aperto, che permette analisi pressoché istantanee delle candidature, anche internazionali, quindi di operare un recruitment speedy quale quello di cui si parlava poc’anzi.

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Valeria Alinei

Professionista nel campo del Marketing e della Comunicazione. Grazie ad un background accademico internazionale, ha svolto ricerche in merito all’applicazione del marketing al settore dell’istruzione, a partire dal lavoro di Tesi magistrale dal titolo “Higher Education Marketing a supporto dell’internazionalizzazione delle Università”, che le è valso una Menzione Speciale da parte dell’AICUN - Associazione Italiana Comunicatori d’Università.

Ha collaborato con l’Ufficio Marketing dell’Università Cattolica di Milano ed è - dal 2016 - una firma stabile del blog di Education Marketing Italia.

Nel dicembre 2019 ha pubblicato con la McGraw-Hill il suo primo libro dal titolo "Education marketing. Strategie e strumenti per comunicare il valore nel mondo dell'istruzione".

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