Si è da poco concluso il Forum AICUN 2019 sulla comunicazione universitaria, tenutosi a Napoli e di cui vi abbiamo parlato in un articolo di qualche giorno fa. Il tema di quest’anno è stato il ruolo sociale dell’Università, in riferimento quindi a valori, comunicazione e Terza Missione.
L’impegno delle Università è la disseminazione di conoscenza e il seminare innovazione nella società: è un ruolo che le organizzazioni devono svolgere con un occhio sempre rivolto al futuro, al valore pubblico che possono creare, attraverso una propensione sistematica al miglioramento, ed utilizzando la comunicazione come leva strategica e non come mero espediente tecnico.
Il focus di questo spin-off è relativo al workshop a cui abbiamo partecipato, dal titolo “I social media come strumento di sviluppo del valore sociale dell’Università“, tenuto dal professore e ricercatore di sociologia, Alessandro Lovari, dell’Università di Cagliari. L’attenzione è rivolta all’impatto delle tecnologie sulla comunicazione, e in particolare dei social media sulle relazioni.
Innanzitutto, per capire di cosa stiamo parlando, è necessario capire la cornice all’interno della quale ci si muove: i social media rappresentano una delle più grandi rivoluzioni della comunicazione degli ultimi decenni. È dal 2004 che si parla di WEB 2.0, al cui interno le parole chiave sono:
– contenuti;
– partecipazione;
– condivisione;
– interazione.
Nello specifico, i social media rappresentano un insieme di piattaforme e di strumenti che rientrano nel più ampio ambito di WEB 2.0, ma non finisce lì. Al proprio interno i social media si possono suddividere in 6 tipologie:
1) Progetti collaborativi: si tratta dei progetti come Wikipedia, in cui si genera conoscenza condivisa;
2) Blog, ovvero tutte quelle piattaforme di condivisione in un “diario” esperienziale, sotto forma di “articoli”, di “entries”; queste piattaforme hanno avuto un grosso boom dal 2008 al 2010, per poi conoscere un periodo di declino fino al 2014, ma da allora sono tornati fortemente in voga in quanto danno la possibilità di fornire ai propri utenti momenti di approfondimento e di informazione sui temi più disparati, sulla scia di uno “storytelling” sempre più diffuso;
3) Comunità di contenuti, come YouTube o Flicker;
4) Siti di Social Network (SNN): da MySpace – ormai diventato la piattaforma preferita per la nicchia di band musicali emergenti – a Facebook, Instagram o Linkedin.
Oltre a queste 4 tipologie, troviamo i Virtual Game Worlds ed i Virtual Social Worlds, che risultano tuttavia in un trend discendente e di minore impatto sulla nostra materia.
Che cosa sono dunque i social media, e in che modo possono essere messi al servizio della comunicazione universitaria?
Per definizione, i social media sono media flessibili abbastanza per venire incontro ai bisogni sociali e relazionali dei soggetti: permettono lo scambio di contenuti, ma soprattutto permettono un incontro a forte connotazione umana, non solo fra pari (persona e persona), ma anche fra utente ed organizzazioni ed istituzioni che siano presenti online. Sì, perché laddove i cittadini sviluppano un’abitudine ad assumere come fonte informativa il web e social, le istituzioni non possono fare a meno di farsi trovare in quegli stessi ambienti, per soddisfare quel bisogno informativo.
Sottolinea giustamente Lovari, che non è possibile ignorare tale bisogno e comportamento del pubblico, in quanto l’assenza dell’istituzione da queste piattaforme, in nessun modo potrebbe limitare lo svolgersi spontaneo di una conversazione, la produzione di contenuti che riguardano la propria organizzazione: l’unico effetto che si otterrebbe dall’assenza, sarebbe l’impossibilità di controllare e monitorare le conversazioni eteroprodotte sui social.
Ma allora, se il digital orienta sempre di più i comportamenti ed evolve a seconda delle pratiche d’uso, e se la propria presenza è fondamentale per partecipare a quelle conversazioni che avrebbero comunque luogo in modo spontaneo sulle piattaforme, è importante usare lo strumento con competenza ed abilità comunicativa, e non dare per scontato che una presenza online sia sufficiente a comunicare con efficacia.
UN PO’ DI DATI
Andando a parlare di singole piattaforme e raccogliendo un po’ di dati (ad esempio dal report annuale di We Are Social ), emerge che le prime 4 piattaforme maggiormente utilizzate sono, in ordine, Facebook, YouTube, Whatsapp e Facebook Messenger. Ciò è vero in senso globale, ma la realtà cambia per singoli Paesi, con una conseguenza importante sulla scelta dei propri canali social, a seconda della direzione geografica verso cui è diretto il proprio interesse: se la nostra attenzione è rivolta verso la Cina, dovremo usare QZone, mentre se vogliamo rivolgerci ad un pubblico in Russia, la scelta dovrà dirigersi verso VKontakte.
In Italia, il 59% della popolazione è attiva sui social; di questa, il 52% li utilizza soprattutto da mobile. Inoltre, si osserva un allargamento demografico dell’utenza: non è vero che solo i giovani usano i social, anzi! È vero però che gli under 40 li utilizzano con maggiore intensità, e sono presenti su più piattaforme. Come si fa quindi ad entrare in quello “storytelling” che le persone osservano sui propri feed social? Beh, è necessario formulare una strategia comunicativa ad hoc: il social non è uno dei canali da utilizzare all’interno di un communication mix più ampio, ma è un vero e proprio ambiente comunicativo all’interno del quale muoversi con costanza e competenza, con produzione di beni relazionali, e non da utilizzare in ottica di trasferimento unidirezionale.
Volendo parlare delle proprietà dei social, risulta fondamentale parlare di PERSISTENZA, in quanto i contenuti non si cancellano e possono avere effetti nel tempo, con possibili criticità legate alla reinterpretazione di un contenuto passato rispetto ad un evento attuale; si parla di DUPLICABILITÀ, perché è difficile distinguere un contenuto originale da una sua copia, con conseguenze in termini di protezione legale dei materiali condivisi; e si parla di SCALABILITÀ, perché è possibile raggiungere, attraverso una catena di condivisioni, un pubblico che non si pensava di poter raggiungere (le cosiddette “audience invisibili”): ciò ha effetti positivi, perché permette di farsi conoscere da soggetti sempre nuovi, ma anche delle criticità, perché in un attimo una crisi locale può diventare globale.
Preso atto di queste proprietà, è evidente che assistiamo ad un collasso della distanza tra pubblico e privato, tra vita online e vita offline, con un’interconnessione che può rappresentare un problema anche in termini di codice di comportamento dei propri dipendenti, che deve andare a regolamentare anche le attività “private” del soggetto, in quanto possono ledere anche l’immagine pubblica dell’organizzazione che tale soggetto rappresenta. Il problema è quindi la qualità della propria presenza online e la percezione che l’utenza ha del valore della nostra comunicazione.
Parlando di Università, la comunicazione può avvenire attraverso un portale istituzionale (un sito web, ad esempio), attraverso piattaforme social (per andare ad incontrare i cittadini proprio nel “luogo” che maggiormente “frequentano”) e sempre più anche attraverso app e servizi di messaggistica istantanea. Non solo, l’Università comunica anche attraverso mediatori, quali possono essere – sempre più – soggetti come blogger, influencer, opinion leader, testate giornalistiche e non: soggetti o organizzazioni in grado di spostare ed influenzare l’opinione pubblica.
Cambiano i contenitori, ma cosa accade ai contenuti?
L’errore più grande è quello di diffondere uno stesso contenuto attraverso tutti i canali, non differenziando i pubblici che li abitano e non sfruttando le “affordances”, ovvero le peculiarità della specifica piattaforma.
LA FILIERA DI COMUNICAZIONE PER LA TERZA MISSIONE
In ottica di Terza Missione, tema centrale del Forum 2019, la domanda è: è utile utilizzare i social media? E se sì, come?
Muoversi in ottica di Terza Missione vuol dire aprire un legame con il territorio e generare un impatto sociale, che però avrà sempre più un impatto anche economico: fare e comunicare bene la nostra missione porterà all’ottenimento di maggiori fondi.
Il ragionamento deve partire dalla RICERCA: cosa fanno gli altri? Cosa dicono i dati e i report sui social? Sono in fase di start-up, ovvero di creazione della missione sociale, oppure si tratta di una strategia di rebranding? È utile rispondere a tutte queste domande prima di iniziare a definire la modalità di comunicazione; è utile altresì realizzare una user research (attraverso interviste, questionari, focus group), per chiedere ai propri stakeholder come vogliono essere informati, e non aprire un canale di comunicazione d’impulso.
Successivamente, bisogna definire gli OBIETTIVI: l’obiettivo non è “essere presenti” sui social. In cosa consiste la Terza Missione per la mia organizzazione? Ho un obiettivo divulgativo? Cerco finanziamenti per un progetto? Voglio valorizzare il rapporto tra alumni e imprese o generare empowerment tra studente e docente? Dalla risposta a quest’analisi interna deriva la scelta del canale social più adatto: se voglio interfacciarmi con i giornalisti, devo sapere che li troverò principalmente su Twitter, mentre gli imprenditori saranno maggiormente ricettivi su Linkedin; o ancora, se i miei investitori sono in Cina, dovrò usare un social diverso, come QZOne.
Non serve, quindi, aprire tanti o tutti i canali: serve trovare un giusto mix tra rilevanza e sostenibilità rispetto ai nostri obiettivi e rispetto al target a cui vogliamo rivolgerci, per creare contenuti che siano utili per il pubblico e per divulgarli nei modi più adatti ed efficaci.
Passando poi alla STRATEGIA, possiamo individuare tre modalità:
- strategia di presidio: essere presenti sempre, con costanza, in modo duraturo;
- strategia di promozione/progetto: aprire un canale in modo temporaneo e relativamente ad un solo progetto, al termine del quale il canale esaurisce la sua funzione e sarà chiuso;
- strategia di solo ascolto: essere presenti per assistenza e con un ruolo meramente informativo.
Vale la pena, dunque, aprire un canale di Terza Missione con strategia di presidio? O è più funzionale una strategia di progetto? Non esiste ovviamente una risposta univoca, ma tutto dipende dalle peculiarità dell’organizzazione e dagli obiettivi definiti.
Come ogni attività, è necessario del tempo: la competenza e l’abilità comunicativa messa in campo devono portare alla realizzazione di un PIANO EDITORIALE, in cui si stabilisca un calendario di pubblicazione, l’ideazione di rubriche tematiche con scadenza periodica, la decisione del “tone of voice” da adottare, le tecniche di engagement da mettere in campo (contest, quiz, sondaggi, etc.), e la definizione di regole di scrittura condivise (un copywriting efficace, hashtag, etc.)
Tutto ciò va MONITORATO nel tempo, per avere sempre una misura del valore generato e della qualità percepita della propria presenza online.
RICAPITOLIAMO!
Riassumendo, quindi, risulta interessante la concezione delle attività di Terza Missione come fonte di beni relazionali, abbiano essi come obiettivo la trasformazione imprenditoriale (come nel caso della ricerca, dei brevetti o del placement), o la creazione di valore culturale per il cittadino e per il territorio. Non ci si può esimere, al giorno d’oggi, dalla comunicazione pubblica digitale in ottica multicanale: certo, restano fondamentali anche i mezzi di comunicazione “tradizionali” – dice Lovari, “digitally first, but not digitally only” – ma sono le pratiche dei cittadini, le loro abitudini, a richiedere la presenza social. La scelta comunicativa, per quanto riguarda queste piattaforme, deve derivare da un’attenta ricerca e riflessione circa gli obiettivi e il target relativi al progetto.
Presa coscienza di questi elementi, si aprono tre strade: preferisco creare contenuti social di Terza Missione sotto forma di “rubrica” all’interno del canale istituzionale che ha strategia di presidio? Oppure ritengo che sia preferibile aprire un canale ad hoc con strategia di progetto? O, ancora, opto per un ibrido, adottando sia l’una che l’altra soluzione?
Scelta esatta non c’è, ma in ogni caso la decisione deve fondarsi sulle risorse, sulle competenze, sulla consapevolezza che una presenza social autoreferenziale, votata solo all’interesse dei vertici dell’organizzazione, genera inevitabilmente una resistenza da parte del nostro pubblico, che perderà interesse nella nostra Missione, quale che sia il suo impatto sulla società. La ricetta per una comunicazione efficace e di qualità, quindi, ha come ingredienti un approccio strategico, tanta formazione, commitment continuo e creatività; solo così i comunicatori possono riacquistare quel ruolo di connettori e “architetti sociali” per costruire ponti con i cittadini e con la società.