Il panorama scolastico ed universitario ha subito grossi cambiamenti negli ultimi 20 anni: in un’economia che si basa sempre più sulla conoscenza, al punto da essere definita knowledge economy, le realtà accademiche si trovano coinvolte in una sempre maggiore competizione, sempre più internazionale in seguito alla globalizzazione dei mercati. Tale competizione, basata su parametri di efficienza e sulla capacità di attrarre studenti ed investimenti, sembra essere tipica di aziende produttrici di beni di consumo.
L’educazione appare dunque, ed è sempre più trattata, come un business.
Ad esempio, le università sono, al giorno d’oggi, sempre più tentate dall’investire in materie che possano essere per loro più profittevoli, in quanto largamente richieste, a discapito di materie considerate meno “professionalizzanti”, come le scienze umanistiche. Si verifica la creazione di programmi e corsi di laurea focalizzati sempre più sulla conoscenza richiesta sul mercato professionale: l’obiettivo dell’università è sempre più favorire il diretto passaggio al mondo del lavoro per i propri studenti, assicurare un’occupazione, al punto che uno degli indicatori più rilevanti nel valutare la bontà di un’università o di un corso di laurea, è proprio il tasso di occupazione dei neo-laureati, nel periodo subito successivo al conseguimento del titolo.
Gli studenti stessi considerano spesso il frequentare l’università come un dovere, come il mezzo per raggiungere un fine, ovvero quello di ottenere un posto di lavoro. L’educazione non è più, come magari in passato, fine a sé stessa, mirata allo sviluppo di un pensiero critico, alla crescita culturale della persona. Lo studente investe nella propria educazione con l’aspettativa di ricavarne un beneficio futuro: l’educazione sembra dunque il prodotto che essi acquistano per soddisfare un bisogno, quello di avere un titolo accademico spendibile sul mercato lavorativo.
Paragonare l’università ad un’azienda produttrice di utilità, guidata da dinamiche di mercato e dalla ricerca di un profitto, attraverso la monetizzazione della vendita di un bene o servizio, è quantomeno riduttivo e ha come diretta conseguenza la considerazione dell’educazione quasi come commodity, con cui si intende un prodotto/servizio, sostanzialmente indifferenziato, che possa essere scambiato sul mercato e consumato. In questo mercato della conoscenza, in cui essa stessa viene prodotta e scambiata, in cui il capitale intellettuale rappresenta il principale asset e studenti ed insegnanti i principali stakeholders, l’educazione diventa un business e le università ricercano profitti.
Tuttavia, si tratta di un processo di “mercificazione”, termine con cui si identifica la considerazione di un bene o un valore, che non ha di per sé natura commerciale, alla stregua di una merce da scambiare sul mercato. Tale definizione sembra essere lontana dalla natura dell’educazione universitaria, che ha a che fare con lo sviluppo delle competenze e delle conoscenze degli studenti, in vista della loro crescita personale e delle loro future carriere professionali; difficilmente essa può esser vista come un prodotto/servizio da “impacchettare” e consumare, come ogni altra commodity scambiata sul mercato.
Come resistere allora alla mercificazione?
La considerazione dell’educazione universitaria come una commodity, seppur ad un occhio superficiale possa sembrare sotto alcuni aspetti conveniente e profittevole in quanto semplice e in regola con il funzionamento dei liberi mercati globali dei beni di consumo, è senz’altro poco adatta al valore in questione!
Se si seguisse il processo di mercificazione, senza attenzione, l’offerta delle varie scuole ed università finirebbe per assomigliarsi sempre più; le università stesse potrebbero finire per assomigliare sempre più al modello ritenuto “vincente”, perdendo la propria unicità, i propri valori e la propria identità. La scelta dello studente, così come per i beni considerati come commodities, avverrebbe quindi quasi esclusivamente in base al prezzo.
Il pericolo dell’affiancare questa definizione all’educazione è quella di giustificare l’omogeneità dell’offerta, nel momento in cui c’è un’estrema attenzione da parte delle istituzioni alle dinamiche di mercato, piuttosto che al valore intrinseco offerto.
Spesso infatti, nell’ideologia comune, il focus si dirige maggiormente all’unico aspetto dotato di materialità di un intero percorso di studi: un diploma di laurea, o una qualsiasi altra attestazione ricevuta. Nel momento in cui l’offerta educativa si riduce alla promessa di meri “titoli”, spendibili sul mercato del lavoro, sembrerebbe che si stia trattando il valore in questione come una merce, il cui valore differenziale dipende dal prestigio dell’istituzione attestatrice: il brand risulta essere un fattore critico di successo e uno dei fondamentali elementi discriminanti della scelta.
Resistere a questo processo vuol dire riconoscere la differenza tra un’esperienza educativa, fatta di investimenti non solo monetari, ma anche – e soprattutto – emotivi, intellettivi e di tempo, da parte degli studenti, e la semplice attestazione che tutto ciò sia avvenuto.
Come mettere dunque il marketing a servizio dell’educazione?
In che modo si possa portare l’educazione sul mercato, senza che se ne perdano i peculiari connotati, e senza snaturarla? (Per approfondire leggi anche il nostro articolo “Il marketing al servizio delle Scuole“)
Concentrarsi esclusivamente sull’offerta e su concetti quali volumi di vendite, quote di mercato e profitto, porta inevitabilmente a perdere di vista la natura del valore offerto e l’importanza dello studente nell’intero processo: il fine, l’essenza delle realtà accademiche è lo sviluppo e trasmissione di conoscenze e competenze, che va ben al di là del mero raggiungimento di un titolo, quale un diploma o una laurea, che ne rappresentano solo un aspetto tangibile.
L’obiettivo da porsi, dunque, non è “vendere”, ma portare a conoscenza dello studente l’esistenza di una vasta scelta di percorsi educativi a sua disposizione; vuol dire soddisfare i bisogni educativi del mercato attraverso la creazione, la comunicazione, il pricing e la distribuzione – intesa come erogazione – di programmi e servizi appropriati e competitivamente efficaci (Kotler & Fox, 1995).
Una buona strategia di marketing, in questo settore, deve servire a generare transazioni di significati, oltre che di mero valore economico, tra le parti; ciò significa riuscire a promuovere ed offrire l’educazione sul mercato, senza che il mercato stesso e le dinamiche competitive la riducano ad una merce con un valore meramente commerciale.