A ottobre è uscita l’annuale classifica mondiale delle università redatta dal Times Higher Education (THE), settimanale inglese che da più di quarant’anni si occupa di istruzione universitaria e che, da ormai dieci anni, stila una classifica mondiale delle università servendosi anche dell’appoggio tecnico della Reuters.
In questo post chiariremo meglio i criteri di classificazione utilizzati dal settimanale e daremo uno sguardo alla situazione mondiale, nel prossimo ci soffermeremo sul risultat delle università italiane.
La valutazione viene effettuata considerando oltre 2000 istituzioni universitarie e considera individualmente le migliori 400, e in gruppi quelle classificate dalla 401esima posizione all’800esima.
Per effettuare questo studio THE utilizza 13 criteri divisi in 5 macroaree:
-
Insegnamento: l’ambiente di apprendimento (vale il 30% del totale);
-
Ricerca: il volume, il reddito e la reputazione (vale il 30% del totale);
-
Citazioni: influenza della ricerca, quanto viene diffusa la conoscenza prodotta (vale il 30% del totale);
-
Reddito Industriale: l’innovazione, quanti investimenti la ricerca attrae dall’industria (vale il 2,5% del totale);
-
Prospettiva internazionale: percentuale di studenti e docenti stranieri e il livello di collaborazione internazionale (vale il 7,5% del totale).
Sono escluse dalla classifica le università che insegnano solo ai già laureati, che insegnano solo una materia circoscritta e che pubblicano meno di 200 papers l’anno (con delle eccezioni per alcuni campi).
Venendo alla classifica vera e propria è facile osservare come il mondo anglosassone rimanga saldo in testa alla classifica, dominando i primi 10 posti e metà dei primi 200.
Al primo posto si riconferma il California Institute of Technology, seguito da Oxford e Harvard seconde a pari merito e Stanford a ruota. Il MIT, Princeton, Cambridge, l’University of California (Berkeley), l’University of Chicago e l’Imperial College of London completano la top ten mondiale dell’insegnamento universitario.
Fin qui non c’è molto da stupirsi, è evidente come a far da padroni indiscussi nel mondo della formazione universitaria siano ancora gli americani e i britannici; il fatto preoccupante è che, tolti questi ultimi, l’Europa conferma in pieno il trend discendente delle sue università, piazzandone solo 56 nei primi 200 posti.
Non direttamente correlato, ma comunque significativo, è invece il miglioramento globale delle università asiatiche, Giappone in testa.
Viene da fare una piccola riflessione su ciò a cui stiamo assistendo nell’Europa della crisi: questa perdita di terreno è il frutto malato delle politiche restrittive che i paesi europei hanno adottato negli ultimi 5 anni rispetto agli investimenti in istruzione e ricerca. Al contrario i paesi asiatici hanno continuato ad investire nelle loro università sia a livello pubblico che a livello privato, occupandosi anche dell’immagine dei propri atenei all’estero, cercando di aumentarne l’attrattiva internazionale.
Nel prossimo post vedremo nel dettaglio il giudizio che hanno ricevuto le nostre università.